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Di Nicolò Milano.

 

Il caffè è la seconda bevanda più consumata al mondo dopo il tè, ed è al secondo posto tra le materie prime commercializzate a livello mondiale dopo il petrolio: ogni anno, una persona consuma in media 4.6 kg di caffè, e si parla di 159,66 milioni di sacchi di caffè verde raccolti nel 2017/2018. Considerando che ogni sacco sono 60 kg va da sè che stiamo parlando di quantità veramente enormi. Basti pensare che il solo fatturato delle prime dieci aziende al mondo (dati del 2015) si attesta sui 61,86 miliardi di euro e impiega 677696 addetti, senza contare i produttori. Un altro dato interessante è un paradosso: quello del caffè è un mercato in espansione che vede i consumi aumentare in tutto il mondo, anche negli stessi Paesi produttori che fino a poco tempo fa esportavano ma non consumavano. Ciò ha reso il consumo superiore alla produzione, con conseguente erosione delle riserve. Attualmente, il caffè viene importato soprattutto dall’America Centrale (Nicaragua, Messico e altri) e solo in misura minore dall’Africa (soprattutto dalla Tanzania).

 

Ma è tutto oro quello che luccica? Attività così lucrose non possono che innescare meccanismi dell’economia internazionale che sono ormai tristemente noti per non guardare in faccia nessuno: Il valore del caffè è stabilito nelle borse di Londra e New York tramite speculazioni finanziarie da parte dei grandi soggetti dell’economia globale. Il gioco è sempre lo stesso: tirare il più possibile il prezzo sul primo acquisto per garantirsi un guadagno sicuro, Un metodo che ha iniziato a formarsi nel 1989, anno in cui gli Stati Uniti ruppero gli accordi internazionali che regolavano il prezzo del caffé esponendolo alle repentine oscillazioni di mercato. Inoltre le lavorazioni intermedie, come la tostatura e la trasformazione  in caffè decaffeinato, avvengono quasi esclusivamente nei paesi consumatori, perché questi Paesi aumentano i dazi per i prodotti trasformati al fine di aumentare la parte di valore aggiunto a scapito dei paesi produttori.

 

Chiaramente a farne le spese sono i produttori: l’80% del caffè a livello mondiale è prodotto da 25 milioni di piccoli agricoltori; vuol dire che ciascuno di essi possiede mediamente 2 ettari di terra che coltiva insieme alla propria famiglia. Si calcola che 125 milioni di persone dipendono dal caffè per la loro sopravvivenza, e lavorano per mettere i chicchi nelle mani dei grandi proprietari terrieri o degli intermediari locali. La filiera del caffè è complessa e i chicchi attraversano numerosi passaggi prima di arrivare ai consumatori: contadini, commercianti, trasformatori, esportatori, torrefazioni, supermercati. La maggior parte dei contadini ha un’idea vaga di dove andrà il proprio caffè e a quale prezzo finale sarà venduto.  È  un modello imprenditoriale neocoloniale che concentra benefici e dissemina disperazione che sfocia in un costo umano altissimo. Pesanti violazioni dei diritti umani per i lavoratori della filiera, che soffrono di povertà, fame, malnutrizione e sfruttamento estremo del lavoro minorili, sono all’ordine del giorno. Questo rende l’industria del caffè, parallelamente a quella del cacao, tra le più crudeli al mondo.

In Guatemala ad esempio un colone guadagna  6 euro al giorno nonostante il salario minimo sia di circa 9 euro al giorno, mentre i lavoratori occasionali guadagnano 4 euro e le donne 2 e mezzo per una giornata di lavoro.

 

I bambini guadagnano come le donne, 2 euro e mezzo al giorno per il lavoro nelle aziende di caffè. Un contadino etiope, come altro esempio, dalla vendita del suo caffé ricava circa 60 dollari l’anno, mentre nel 1998 ne guadagnava 320.  Secondo le ONG sempre in Guatemala quasi 1 milione di bambini tra i 5 e i 14 anni lavora. Secondo il Ministero del lavoro invece sono ‘solo’ 850mila, il 70% dei quali nelle aree rurali del paese. I bambini e le donne sono molto ricercati durante il periodo della racconta di caffè perché le loro mani piccole raccolgono meglio i chicchi maturi. Grazie allo sfruttamento del loro lavoro i costi del caffè in tutti il mondo si mantengono bassi. Come è possibile tutto questo? Il meccanismo è semplice, come spiega un sindacalista del sindacato guatemalteco, e fa del piccolo stato centroamericano un vero e proprio paradiso fiscale: “Un investitore che viene dall’estero o dal nostro paese può creare un’impresa, denominata società anonima, con un capitale di circa 776 dollari, dichiarati alle istituzioni di Governo. Però in realtà tale impresa sta lavorando con un capitale di 776mila dollari senza dichiararlo come capitale dell’impresa. Questo le permette di non pagare il salario minimo, non migliorare i salari e non permettere la libertà sindacale. E oltretutto non pagare le tasse dovute”.

Starbucks e Nespresso, tra i leader mondiali del settore, sono stati più volte accusati di sfruttamento. tanto che dopo un’ inchiesta di una rete britannica che ha messo a nudo alcune aziende mai rivelate pubblicamente da cui si rifornisce appunto Nespresso, George Clooney (storico volto pubblicitario del marchio) si è dichiarato “sorpreso e intristito”.

 

Inoltre l’uso di fertilizzanti e antiparassitari chimici è molto dannoso sia per i contadini, che non sono dotati delle giuste attrezzature per proteggersi dal contatto con tali sostanze, che per l’ambiente: la lavorazione ad umido delle bacche di caffé, in particolare, favorisce la dispersione di residui inquinanti nelle falde acquifere che vengono così irrimediabilmente contaminate. Sempre inerente all’ambiente è il problema della deforestazione, ma questo è un altro discorso che meriterebbe una parentesi a parte.

È proprio per far fronte a tale problema che è nato il commercio equo solidale: una forma di commercio che vorrebbe garantire al produttore ed ai suoi dipendenti un prezzo giusto assicurando anche la tutela del territorio. Si oppone alla massimizzazione del profitto praticata dalle grandi catene di distribuzione organizzata e dai grandi produttori. Carattere tipico di questo commercio è la vendita diretta al cliente finale, limitando la catena di intermediari. Ciò è ufficializzato attraverso un sistema di certificazioni appositamente create per tracciare e controllare la filiera produttiva e la rete commerciale, sostenendo i coltivatori del ‘sud del mondo’ e le organizzazioni umanitarie coinvolte. Il caffè assume un ruolo centrale, sia perché è stato uno dei primissimi prodotti coloniali ad essere commercializzato con regole non finalizzate al profitto (Africaffè), sia per il suo valore simbolico. Il caffè è stato il primo prodotto ad essere certificato come prodotto equo e solidale, in cui viene stabilito il rapporto commerciale diretto tra operatori commerciali europei e le organizzazioni produttrici del sud del mondo. Esistono criteri e regole che devono essere rispettate per far in modo che il caffè possa essere riconosciuto come equo e solidale: il caffè deve provenire da cooperative di piccoli contadini certificate dal commercio equo (si esclude in tal modo il commercio intermedio locale che sovente impone condizioni di sfruttamento); si promuovono relazioni commerciali a lungo termine tra produttori e compratori; il caffè deve essere coltivato e lavorato in condizioni rispettose dell’ambiente; è stato instituito un prezzo minimo stabile indipendente dalle variazioni di mercato e funziona da rete di salvataggio per una produzione sostenibile; è stato instituito infine un premio fairtrade che le cooperative di produttori possono destinare a progetti di tipo sociale, a scuole e ambulatori oppure  al miglioramento produttivo.

Il circuito del caffè Fairtrade è cresciuto molto, negli ultimi dieci anni, e ha ancora grossi margini di espansione. I primi marchi di certificazione (Max Havelaar, TransFair, in seguito unificati sotto l’unico marchio Fairtrade) sono stati creati in Europa (Olanda, Lussemburgo, Austria, Danimarca) sul finire degli anni Ottanta. In Italia il primo caffè certificato TransFair è stato lanciato nel 1995, per poi passare al marchio internazionale Fairtrade nel 2005. Seppur ancora oggi la questione della sostenibilità economica, sociale e ambientale della produzione del caffè è lontana dall’essere risolta,  Negli ultimi 15 anni la quantità di caffè verde importato, sempre ad esempio in Italia, tramite il circuito Fairtrade è passata da circa 270 tonnellate del 2003 a quasi 812 nel 2017. A parte le quantità, da allora sono stati fatti moltissimi passi avanti, soprattutto nel miglioramento della qualità del caffè, con riconoscimenti di premi anche internazionali. Dal punto di vista della coltivazione, gli standard Fairtrade incentivano le produzioni ambientalmente sostenibili e vietano l’uso di OGM. Inoltre riconoscono un Premio più alto per il caffè biologico, incentivando così le cooperative a convertire la produzione. Per quanto riguarda il packaging, il caffè Fairtrade si riconosce per la presenza del marchio Fairtrade e delle dichiarazioni obbligatorie previste dalle regole Fairtrade per il packaging dei prodotti certificati.

Non ci resta che sostenere questo tipo di mercato, ricordandoci sempre che tutto ha un prezzo… soprattutto quando quello del prodotto finale risulta essere troppo basso per avere una qualche credibilità di livello etico e qualitativo.