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Risalendo all’inizio della filiera produttiva il caffè può avere un impatto ambientale considerevole. Ad accendere i riflettori su questo tema è un recente report del Wwf che si intitola “Quanta foresta avete mangiato, usato o indossato oggi?”. La foresta amazzonica infatti viene distrutta soprattutto per ricavare legname e per fare spazio alle coltivazioni di beni agroalimentari che vengono per la maggior parte esportati. A conti fatti, dunque, i consumi dell’Unione europea sono responsabili del 10% della deforestazione globale. Tra questi beni agroalimentari c’è anche il caffè: oggi nel mondo si producono 169 milioni di sacchi all’anno, di cui 96 milioni di Arabica e 73 di Robusta. L’80% di questa enorme quantità di caffè è frutto del lavoro di 20 milioni di piccoli produttori, spesso in condizioni di povertà: su un giro d’affari complessivo di oltre 100 miliardi di dollari all’anno, infatti, a loro spettano soltanto le briciole. Ma c’è di più: per soddisfare la domanda globale in crescita, la produzione di caffè dovrà triplicare entro il 2050. E il 60 per cento dell’area idonea è oggi coperta da foreste. Di per sé, abbattere gli alberi non sarebbe obbligatorio: nella coltivazione tradizionale, al contrario, gli alberi fanno ombra alle piante di caffè, con un approccio di agroforestazione. Negli ultimi decenni però le coltivazioni sono state spostate in pieno sole e gestite con le moderne tecniche agroindustriali. Sacrificando così la biodiversità nel nome di una resa maggiore. Come fare, dunque, per non contribuire – anche involontariamente – a un sistema produttivo che calpesta i diritti dei lavoratori e dell’ambiente? Un buon compromesso è quello di scegliere i marchi Fair Trade, perché garantiscono la tracciabilità del prodotto e un equo compenso ai coltivatori.