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Il Kenya è un Paese ben noto per esser un discreto produttore di caffè che però allo stato attuale non risulta esser un prodotto di punta per gli scambi commerciali e quindi sull’economia locale. I motivi degli scarsi risultati sono da ricercarsi nel fatto che il Kenya vende in forma grezza la maggior parte della propria produzione. Non solo: la torrefazione e la trasformazione, che aggiungono valore, avvengono altrove.

 

Una situazione chiaramente insostenibile, da cui l’obiettivo del governo di Kinshasa di puntare a ottenere maggiori benefici puntando su due strategie. La prima riguarda la promozione della domanda interna, sia in termini di lavorazione che di consumo. Ad oggi, infatti, sulle 45mila tonnellate di caffè prodotte in Kenya ogni anno, solo un modesto 3% viene lavorato e consumato entro i confini nazionali. Si punta così a far salire tale percentuale almeno al 7% entro la fine del 2025. Il raggiungimento di questo obiettivo è importante per garantire stabilità e maggiori redditi specialmente per gli agricoltori, oggi esposti alle fluttuazioni dei prezzi sui mercati internazionali senza poterne in alcun modo influenzare i costi. Non è un caso che altri grandi produttori di caffè quali, ad esempio, Brasile, Etiopia, Colombia e Guatemala siano anche importanti consumatori della scura bevanda.

L’altra strategia posta in essere dall’esecutivo è quella di aggiungere valore alle produzioni, puntando sui vari passaggi della filiera. Al momento, come detto, il caffè del Kenya viene esportato in forma grezza. L’idea è quella non solo di trasformare in loco i chicchi ma arrivare anche a produrre i macchinari per uso domestico, così da creare un’industria intorno al prodotto e poter così godere di maggiori ricadute in termini di indotto.